Āyurveda, regolamentazione e globalizzazione

Āyurveda, regolamentazione e globalizzazione | Ayurvedic Point©, Milano

Natura e Benessere 19 – 42/45 (2006)
a cura di: dr. Antonio Morandi, Carmen Tosto

Chi si occupa di Āyurveda e ne utilizza i prodotti a scopo terapeutico si scontra con una serie di problemi estremamente complessi relativi sia alla standardizzazione ed al controllo della qualità delle erbe utilizzate che alle normative vigenti che di fatto ostacolano il ricorso a tale medicina. Il rischio che l’Āyurveda corre è quello di essere dunque “assoggettata” al modello scientifico occidentale che potrebbe depauperarla della sua millenaria saggezza e purezza. L’Āyurveda è la Medicina Tradizionale Indiana e, in quanto tale, è perfettamente integrata nel sistema sanitario dell’India.

In India sono registrati circa 500.000 medici allopati (più o meno come negli Stati Uniti, ma a fronte di una popolazione quadrupla) ai quali vanno aggiunti circa 367.000 medici ayurvedici. Inoltre, in India, il sistema sanitario ayurvedico conta circa 22.100 farmacie, 2.189 ospedali con 33.145 posti letto, circa 230 scuole e 8.400 produttori di farmaci. Non a caso, nel Novembre 2005, proprio in India, si sono svolti due importanti congressi internazionali di Āyurveda: il 2nd International Ayurveda Congress a New Delhi e l’International Meeting on Ayurveda and Medical Astrology a Trisshur, nel Kerala. Gli eventi si sono rivelati sicuramente molto interessanti per gli addetti ai lavori, e non solo, in quanto entrambi fondamentali per entrare in contatto con la realtà del mondo e della logica dell’Āyurveda nel suo paese di origine.

Durante la partecipazione ad eventi congressuali di così ampio respiro, ci si rende effettivamente conto della complessità dell’argomento, della profondità del pensiero filosofico, clinico e terapeutico nonché della reale valenza medica delle pratiche ayurvediche. In queste circostanze si può assistere all’armonizzazione ed integrazione, in una visione di ampio respiro culturale, di discipline che agli occhi occidentali sono in aperta contraddizione logica quali, ad esempio, la chirurgia oculare e l’astrologia medica. E questo accade in virtù del fatto che nell’osservare la manifestazione della Natura l’Āyurveda utilizza una metodologia associativa analogica, non lineare, per la valutazione degli eventi piuttosto che ricorrere a una loro suddivisione in sottoinsiemi non rappresentativi della complessità del reale.

Questi Congressi servono anche a creare le occasioni idonee per discutere ed evidenziare le strategie e le politiche relative alla diffusione a livello internazionale dell’Āyurveda e dei suoi metodi didattici e di cura. A tale proposito, un aspetto molto importante e complesso è costituito dalla standardizzazione e dal controllo della qualità delle erbe e dei prodotti ayurvedici al fine di consentirne una regolare esportazione. Questo, peraltro, è uno dei problemi più dibattuti da chi si occupa di Āyurveda nel mondo occidentale e che ne utilizza i prodotti a scopo terapeutico. In tale contesto la problematica non riguarda tanto il valutare se le erbe indiane siano insostituibili o migliori delle nostre (la teoria vuole infatti che le erbe abbiano molta più efficacia se crescono vicino a chi le utilizza); il tema in discussione ruota essenzialmente intorno al fatto che la millenaria farmacologia ayurvedica su cui ci basiamo è costruita sulle piante indiane e poggia su principi molto diversi rispetto a quelli che regolano la nostra fitoterapia erboristica o farmacologia erbale. L’uso ayurvedico di una pianta presuppone che il suo esame sia stato condotto secondo i criteri su cui fonda l’intero impianto teorico dell’Āyurveda; si tratta di concetti analitici quali panchamahabhuta (I cinque elementi), dosha (i principi vitali), guna (le qualità inerenti), rasa (il gusto), virya (la potenza), vipaka (l’effetto post-digestivo) e prabhava (le caratteristiche speciali) che rappresentano, assieme alla loro valutazione su base analogico-soggettiva anziché su base numerico-quantitativa, un dilemma per il mondo occidentale.

In India intere generazioni di medici hanno condotto per millenni studi in tal senso, mentre in Europa, per quanto riguarda le piante occidentali, è ancora tutto terreno inesplorato ad esclusione della pionieristica attività del dottor Guido Sartori in Italia e del vaidya Atreya Smith in Francia. Fra le ipotesi di ricerca percorribili va esclusa a priori quella di avviare una produzione di piante indiane in un territorio diverso, come ad esempio quello italiano, perché le piante cambiano le loro caratteristiche in relazione all’ambiente, alle condizioni climatiche e alla composizione del terreno in cui crescono, per cui, in ultima analisi otterremmo delle piante ben diverse da quelle che crescono in India.

Per applicare i principi terapeutici dell’Āyurveda è quindi giocoforza per noi medici praticanti l’Āyurveda in Italia e in Europa rivolgerci alle piante indiane. È proprio qui, però, che sorgono i primi problemi in quanto l’Unione europea ha approvato una Direttiva chiamata THMPD (Traditional Herbs Medicinal ProDucts) secondo la quale un farmaco erbale può essere accettato a condizione che sia presente sul mercato europeo da almeno 15 anni. Tale direttiva, a nostro avviso, non ha alcuna base scientifica in quanto la validità, l’efficacia o la sicurezza di un prodotto non sono certamente attestate dalla sua presenza più o meno lunga sul mercato. Questa normativa, dunque, specialmente per quanto riguarda i prodotti ayurvedici, testati da centinaia di anni di esperienza clinica, rischia di costituire una barriera insormontabile per la diffusione dell’Āyurveda in Europa. Occorrono quindi nuove regole che consentano di verificare i prodotti nelle loro caratteristiche specifiche per poterne valutare efficacia e sicurezza. Queste regole, però, non possono prescindere dall’impianto teorico stesso che consente l’utilizzo del prodotto. L’Āyurveda, infatti, non rientra nel nostro sistema logico-scientifico ed essendo un sistema diverso, a sé stante, con proprie “unità di misura”, non può essere valutato con strumenti non propri.

Emerge quindi al contempo una domanda ed una preoccupazione: come può l’India riuscire a diffondere l’Āyurveda, la sua cultura ed i suoi prodotti, in una parola a globalizzarla senza compromettere la sua saggezza e la sua purezza millenaria? Le regole di cui c’è bisogno, dunque, non possono essere frutto della logica occidentale; esse, infatti, devono necessariamente essere regole che “traducano” la logica ayurvedica nel nostro modello scientifico e per la nostra comprensione.

In nome di una globalizzazione rampante, purtroppo, sta invece avvenendo l’esatto contrario. Gli indiani, pur così orgogliosi della loro cultura, come colpiti da una sorta di “sindrome del fratello minore” tendono – probabilmente per far accettare la loro cultura come parte del sistema globale – a sottostare alle richieste occidentali: in un contesto intellettuale così particolare come quello dell’Āyurveda ciò non ha alcun senso né scientifico né culturale.
Così facendo viene snaturata l’essenza più pura dell’Āyurveda, il distillato di millenni di saggezza e di osservazione della Natura. Questa dinamica è percepibile anche nell’ambiente accademico indiano all’interno del quale numerosi studi scientifici vengono condotti oggi secondo schemi tipicamente occidentali, rendendoli quindi sterili e non significativi a fronte di una realtà clinica evidentemente diversa.
Il problema degli studi clinici che investono le Medicine Non Convenzionali è comunque un problema comune anche ad altre discipline e risiede nella natura non standardizzabile del loro intervento clinico e terapeutico. Uno studio clinico ayurvedico deve poggiare su criteri di inclusione ed esclusione basati su parametri specifici della diagnostica ayurvedica e deve attuare un protocollo terapeutico dinamico che tenga conto delle diverse classi costituzionali emerse da tali criteri.

È quindi necessario che l’India recuperi sicurezza di sé e della sua ricchissima eredità culturale, scientifica ed etnografica affermando nettamente l’originalità del proprio bagaglio culturale medico tradizionale. Paradossalmente tocca a noi occidentali ricordare all’India le proprie origini: un dovere al quale non possiamo sottrarci in quanto l’Āyurveda è un patrimonio dell’umanità. Per cui, se vogliamo recuperare anche la “nostra” medicina tradizionale utilizzando la conoscenza dell’Āyurveda, rimasta inalterata nel tempo, dobbiamo mostrarci intransigenti di fronte all’atteggiamento troppo assertivo del mondo accademico indiano e richiamare alla loro memoria che la Tradizione è un distillato evolutivo dell’esperienza che seleziona ciò che funziona da ciò che non funziona. Non sembri presuntuoso dirlo, ma l’evoluzione dell’Āyurveda potrà trarre nuova linfa vitale proprio dai suoi cultori occidentali. Ogni tanto, infatti, nella corsa degli eventi è necessario introdurre delle discontinuità che abbiano, alla fine, l’effetto di rivitalizzare tutta la dialettica interna di una “scienza”. Solo mantenendosi tale l’Āyurveda potrà permettersi di affrontare la crisi del confronto con la globalizzazione delle conoscenze, forte proprio del suo bagaglio di sapienza, di plasticità filosofica e di competenza clinica.

L’Āyurveda è “Scienza della conoscenza della Vita” e, come tale, è adattabile alle variazioni e preserva la vita di ogni essere vivente e del pianeta: è ora di occuparsene proteggendola soprattutto dai nostri inquinamenti mentali. Tutto è semplice in Natura, basta seguirne le regole.

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Author: ayurvedicpoint